Washington, 21 ottobre 1967 – Flower Power – Marc Riboud

È una bella giornata di fine ottobre, una di quelle giornate d’autunno perfette per andare a passeggio nei parchi della città o lungo il fiume Potomac, oppure ancora a visitare il Lincoln Memorial.

Infatti più di centomila persone si diressero verso il grande monumento eretto in onore del sedicesimo presidente degli Stati Uniti.

Lo scopo era quello di partecipare a una grande manifestazione di protesta contro la guerra nel Vietnam.

Non ci sono Joan Baez e Bob Dylan con le loro canzoni di pace, amore e fratellanza.

Nell’aria risuona la musica di Phil Ochs, accompagnata dai discorsi dello scrittore Noam Chomsky, del poeta Allen Ginsberg e di altri intellettuali, oltre alle urla e agli slogan dei manifestati.

©-Marc-Riboud-Jan-Rose-Kasmir-Washington-21-ottobre-67

Tutti contro l’ennesimo conflitto che gli americani stanno combattendo, questa volta in Estremo Oriente, come se non fossero già bastate la Seconda Guerra mondiale e l’intervento in Corea, terminato meno di quindici anni prima.

La maggioranza di quella enorme folla è composta da ragazzi che fortunatamente non hanno mai combattuto, ma hanno ascoltato i ricordi dei nonni, dei padri, dei fratelli più grandi.

Hanno visto i documentari girati in Europa e nel Pacifico dei cameramen dell’esercito, e sanno quanto la guerra vera è lontana da quella “pulita” ed eroica raccontata negli studios di Hollywood.

E non vogliono esserci, questa volta, non vogliono andare in Vietnam.

Una forte mobilitazione che dai campus universitari aveva raggiunto gran parte della popolazione, nelle settimane precedenti, anticipò la protesta di quel giorno di ottobre.

Ognuno reagisce come può: quarantamila ragazzi sono già fuggiti in Canada per non essere arruolati, e molti di quelli presenti al Lincoln Memorial stanno bruciando pubblicamente le cartoline precetto.

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È il movimento non violento immaginato due anni prima da Ginsberg nel suo saggio How to Make a March/Spectacle, in cui sostiene che le proteste devono essere pacifiche e che i dimostranti devono regalare caramelle, giocattoli e fiori alla polizia, ai giornalisti, ai politici, agli spettatori, a tutti.

Il potere è nei fiori, ripete come un mantra Ginsberg.

È nato il Flower Power.

Per questo quel giorno ci sono ragazzi che distribuiscono fiori a tutti, anche ai soldati che il governo ha schierato intorno al vicino Pentagono.

Quasi la metà dei manifestanti, infatti, ha prolungato la marcia di protesta attraversando il ponte sul fiume Potomac, in direzione del quartier generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

La situazione è surreale: da una parte l’impenetrabile cordone dei paracadutisti del 503° battaglione di polizia militare aviotrasportata e dell’82a Divisione aviotrasportata, con i fucili spianati e le baionette innestate, dall’altra una fluttuante folla multicolore disarmata, che canta, balla e urla slogan pacifisti.

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Tra loro persone di ogni ceto, età, colore di pelle, sacerdoti, mamme con i figli in carrozzina, gente comune: la classe media americana.

Tra i manifestanti ci sono studenti giovanissimi, che hanno saltato le lezioni per essere presenti.

Jan Rose Kasmir ha solo diciassette anni e frequenta il liceo; questa mattina ha lasciato i libri a casa ed ha preso l’autobus per venire a Washington per dire no alla guerra, insieme ai suoi compagni di scuola e a migliaia di sconosciuti.

Prende dei fiori e li offre ai soldati davanti a lei, parla con loro, forse cerca di convincerli a passare dalla sua parte, dalla parte della pace, allarga le braccia in un gesto amichevole con l’incoscienza della gioventù, senza pensare alle armi spianate contro di lei.

Un giovane attore di diciotto anni, George Harris, arriva a infilare i fiori nelle canne dei fucili, quasi fosse la performance di un teatro off Broadway.

Migliaia di altri si comportano allo stesso modo, tranquilli pur nella confusione del momento, con gli slogan “Make love not war” gridati a squarciagola.

Poi, all’improvviso, mentre migliaia di persone continuano a cantare imperterrite slogan contro la guerra, un piccolo gruppo di manifestanti cerca di avvicinarsi al Pentagono e cercano di rompere il cordone di sicurezza, che invece si stringe sempre più.

©-Marc-Riboud-Jan-Rose-Kasmir-Washington-21-ottobre-1967-Flower Power

Il pacifismo lascia il posto alla violenza, vengono lanciati oggetti, i soldati utilizzano i gas lacrimogeni e i calci dei fucili per contrastare la folla.

Lo scontro continua per ore ed ore, fino a mezzanotte, con l’arresto di più di seicento persone, solo una piccola parte di quella immensa folla, che voleva la pace mettendo “dei fiori nei vostri cannoni”.

* * *

Il racconto di fantasia che avete appena letto trae spunto dalle foto prese a Washington in quel giorno d’ottobre del 1967, la prima grande manifestazione pacifista che segnò la storia dei movimenti non violenti.

Delle migliaia di foto scattate in quei giorni, due in particolare divennero famose in America e in Europa.

Quella che ritrae l’attore George Harris, di Bernie Boston, inizialmente non venne considerata interessante dall’editore della rivista “The Washington Evening Star”.

L’immagine finì relegata in una pagina interna, divenendo conosciuta solamente dopo varie mostre e la vittoria di numerosi premi.

L’altra, con Jan Rose Kasmir, di Marc Riboud, apparve sulla rivista “Look” del 30 dicembre del 1969, confermando la tecnica e la sensibilità del fotografo francese, per cui Henry Cartier-Bresson e Robert Capa avevano caldeggiato nel 1953 il suo ingresso nella prestigiosa agenzia “Magnum”.

Le foto scattate in quei giorni divennero il simbolo di un gesto di ribellione non violenta che attraversò il tempo e lo spazio, arrivando in tutte le parti del mondo dove si manifestava per la pace.

Jan-Rose-Kasmir-2003

Dei “protagonisti” delle due foto, George Harris abbandonò la contestazione per dedicarsi alla musica psichedelica e al teatro d’avanguardia; Jan Rose seppe di quello scatto solo dieci anni più tardi, quando il padre la vide pubblicata su un libro di fotografia.

La lettera che Jan scrisse a Riboud rimase senza risposta, ma nel febbraio 2003 Marc l’ha incontrata a Londra e fotografata nuovamente in una manifestazione, proprio come in quel lontano 1967, stavolta contro la guerra in Iraq.

In fin dei conti, come lei stessa ha affermato: «Io resto una vecchia hippie che si confonde tra la folla, come Superman, col mantello nascosto nell’armadio».


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