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Are Bure Boke: Il collettivo giapponese Provoke

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Quante volte ci disperiamo perché le foto non sono perfette?

Impostiamo gli ISO al minimo per evitare il rumore, riduciamo la velocità dell’otturatore per eliminare il mosso, regoliamo la messa a fuoco con precisione maniacale.

Il fuoco su quale occhio? Il più vicino alla camera? Quello più lontano? E se i soggetti sono due?

Dimentica tutto questo.

Tra gli anni ’50 e ’60, il Giappone attraversava un periodo di intensa agitazione politica.

Il Partito Comunista, pur non avendo rappresentanza nel governo, esercitava una forte influenza sulle associazioni studentesche, che a loro volta spingevano gli artisti verso tematiche socialiste e anti-imperialiste.

Molti artisti sentivano così la pressione di conformarsi a questa ideologia, ma al contempo il boom economico giapponese offriva loro anche l’opportunità di indipendenza creativa.

In questo clima, si stava inoltre diffondendo la fotografia documentaria dei fotografi di Magnum Photos, che raccontavano la realtà della Guerra del Vietnam con immagini crude e dirette.

La loro fotografia era una testimone neutrale della vita così com’era.

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Il collettivo Provoke

In questo contesto emerge Koji Taki, critico e filosofo giapponese, che rifiutava il realismo dei fotografi di Magnum Photos, preferendo un approccio più personale.

Il suo tentativo era quello di “smantellare l’ambiente semantico”, ovvero decostruire il significato tradizionale della fotografia.

Con il fotografo Takuma Nakahira fondò il collettivo Provoke, a cui si unirono in seguito i fotografi Daidō Moriyama, Yutaka Takanashi e i poeti Takahiko Okada e Gōzō Yoshimasu.

Il loro scopo non era semplicemente documentare la realtà, ma mostrarla attraverso la loro percezione.

Volevano trascendere il linguaggio fotografico tradizionale, trasmettendo l’atmosfera e le sensazioni di un momento piuttosto che una rappresentazione oggettiva.

Erano consapevoli che qualsiasi idea o concetto fosse molto più facile da esprimere con le parole piuttosto che con una fotografia.

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Allo stesso tempo, però, credevano che le immagini fossero capaci di generare linguaggio e idee, dando vita a una forma di comunicazione diversa da quella scritta, in grado di stimolare nuove riflessioni e significati nel pubblico.

Da qui il nome Provoke: le loro immagini erano pensate come “documenti che provocano il pensiero”.

Fedeli alla loro filosofia, si distanziarono dalla fotografia documentaria classica, scegliendo come soggetti la monotonia della vita urbana e il senso di alienazione della società giapponese contemporanea.

Il loro stile era radicale: Are, Bure, Boke ovvero Grezzo, Mosso, Sfocato.

A proposito, il termine Bokeh, usato oggi per descrivere lo sfocato nelle immagini, deriva proprio dall’anglicizzazione del termine giapponese Boke.

Il distacco dalla fotografia tradizionale era totale: temi, estetica e messaggio erano in netta rottura con il passato.

Anche lo sviluppo dei negativi seguiva tecniche non convenzionali, con l’intento di perdere dettagli, aumentare la grana e il contrasto, esasperando ulteriormente l’effetto visivo.

Tra il 1968 e il 1969, pubblicarono tre numeri della rivista Provoke, intitolati semplicemente Provoke 1, 2 e 3.

Venne anche pubblicato nel 1970 un’ulteriore edizione, chiamata “First Abandon the World of Pseudo-Certainty: Thoughts on Photography and Language”, che viene spesso accreditata come Provoke 4-5, contenente foto non ancora pubblicate.

Dopo l’ultima pubblicazione sorsero dubbi all’interno del collettivo, soprattutto nel cofondatore Nakahira, che iniziò a mettere in discussione l’efficacia di questa fotografia nell’avere un effetto sul mondo esterno.

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Il gruppo si sciolse, e i suoi membri proseguirono il proprio percorso in modo indipendente.

Tuttavia, l’influenza di Provoke sulla fotografia giapponese e internazionale sarebbe rimasta indelebile, soprattutto nella decina di anni successivi.

L’eredità di Provoke oggi

Non so quale insegnamento si possa trarre da questa storia della fotografia giapponese, ma posso dirti cosa ho capito io.

A volte, ciò che conta davvero è l’emozione che vuoi trasmettere, più che la perfezione estetica dell’immagine.

Nella fotografia documentaria, l’essenza sta nel messaggio, nel soggetto che scegli di catturare, nell’evento che vuoi raccontare.

Ho notato che questo stile sta lentamente tornando.

Lo vedo nei lavori di alcuni fotografi sportivi, nella fotografia commerciale e, in parte, anche in quella documentaria.

Anche se a colori, gli scatti sono mossi per esprimere la dinamicità dello sport, sfocati per enfatizzare il movimento e l’atmosfera, granulosi per evocare un’estetica vintage e richiamare la fotografia analogica.

Se il collettivo Provoke ha dimostrato qualcosa, è che la fotografia non deve essere perfetta per essere potente.

Forse vale la pena, ogni tanto, provare a scattare senza troppe regole, lasciarsi guidare dall’istinto e vedere cosa ne viene fuori.

Magari, in mezzo al mosso e alla grana, troverai un’immagine più vera di qualsiasi altro scatto perfettamente nitido.

Per approfondire e altre immagini

Con questo nuovo articolo inauguriamo la nuova rubrica “…” curata da Matteo Monzali.
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