Membro dell’Agenzia Magnum dal 2005, vincitore di undici World Press Photo, della Leica Medal of Excellence (2001), della Robert Capa Gold Medal (2006) e dello Eugene Smith Grant in Humanistic Photography (2006), Paolo Pellegrin, è uno dei fotoreporter più importanti e conosciuti a livello internazionale.
Nato a Roma nel 1964 in una famiglia di architetti, vive la sua infanzia e adolescenza a contatto con l’arte.
Dopo aver frequentato per alcuni anni la facoltà di architettura, decide di lasciarla e di iscriversi all’Istituto Italiano di Fotografia.
L’incontro con la fotografia rappresenta per Pellegrin un vero e proprio punto di svolta.
L’autore capisce immediatamente di aver trovato la sua strada, il suo modo per guardare il mondo.
Passa così diversi anni a scattare, sviluppare, stampare per diventare padrone del mezzo e delle sue potenzialità espressive.
Dagli anni ‘90 fino ad oggi Pellegrin non si è mai fermato.
Il Kosovo, l’Iraq, la Palestina, il Giappone, gli Stati Uniti, l’Ucraina, sono solo alcuni dei luoghi che ha percorso negli ultimi decenni testimoniando conflitti, migrazioni, carestie, disastri naturali.
Paolo Pellegrin non è mai solo uno spettatore degli eventi.
Le sue fotografie, connotate da un tratto di straordinaria vicinanza fisica ed umana, ci fanno entrare nella storia, travalicano i confini del fotogramma.
I volti, i gesti, gli sguardi ci trasportano nel caos, ci fanno sentire il rumore delle esplosioni, l’odore acre della polvere, le urla, il dolore.
Immagini a volte mosse, fuori fuoco, con l’orizzonte inclinato, le figure inghiottite dal buio o spinte ai margini del fotogramma ci conducono all’interno dei fatti, alla concitazione del momento.
“Nelle fotografie di Pellegrin, dice Kathy Ryan, è sempre notte.
Il nero è il colore dominante che cala nelle sue immagini fumose come un turbinio di cenere.
Le figure emergono dall’ombra con passo malfermo, come sonnambule.“
Le fotografie per l’autore sono dei semi che germogliano e trovano la loro compiutezza solo nella singolarità dell’osservatore.
Le sue non sono immagini finite.
Sono domande che, pur partendo da una scelta, non hanno la pretesa di dare giudizi o risposte.
Sono un incontro, un invito alla riflessione, alla coscienza, alla conoscenza.
Ciò che gli preme, al di là di ogni considerazione estetica, è il valore della testimonianza che egli attribuisce alla fotografia, come si evince dalla sua intera produzione.
“Quando lavoro e sono dunque esposto alla sofferenza degli altri, alla loro perdita, qualche volta alla loro morte ho il sentimento di servire da testimone.
Forse ci si rende conto dell’esistenza degli altri nel loro istante di sofferenza perché esso invalida tutte le nostre scuse.”
Il conflitto Israelo-Palestinese
Dal 2000, Pellegrin, si occupa del conflitto Arabo-Israeliano.
Nel corso degli anni si è recato più volte nei territori, sia come fotografo embedded dell’esercito israeleiano, per documentare gli attacchi suicidi dei palestinesi, che nella striscia di Gaza e in Cisgiordania, coprendo non solo le fasi calde della guerra, ma anche quelle post combattimenti quando l’attenzione dei media si sposta altrove ed i civili rimangono a fare conti con le macerie e i danni economici, fisici e morali che ogni guerra porta con sé.
Tra le immagini più toccanti di questo percorso di testimonianza troviamo una serie di ritratti alle persone ferite durante gli attacchi, persone che a seguito delle gravi ferite vedranno compromessa per sempre la loro vita.
Pellegrin decide di ritrarre i soggetti nelle loro abitazioni in maniera semplice ed essenziale, quasi con un intento catalogatore, e di accompagnare le immagini con i ricordi delle vittime al momento del ferimento.
Khamis Abu Arab, 12 anni, ritratto nell’immagine precedente, ha perso la vista mentre giocava con un ordigno non detonato durante l’operazione Piombo fuso.
La madre di Jenin che sviene durante il funerale del figlio ucciso in un raid israeliano è una delle immagini più conosciute dell’autore ed una delle fotografie simbolo della guerra.
Il viso della donna, ritratto in una posa estatica, è l’unico visibile all’interno di questa folla senza volto che la sostiene e l’accompagna, quasi trascinandola, nel suo viaggio più difficile.
Un’immagine che diventa sinonimo di un dolore universale che varca il confine spazio temporale dell’evento riportando alla memoria l’iconografia classica della pittura religiosa.
La figura materna è ancora protagonista in questo scatto emblematico della sua produzione: il ritratto di una famiglia di profughi palestinesi realizzato a Gaza durante l’operazione Piombo fuso.
La famiglia è ripresa all’interno della tenda che li ospita dopo il bombardamento che ha distrutto la loro casa.
L’immagine ha una composizione complessa e risponde ad un’idea di rappresentazione che trae la sua forza proprio dalla molteplicità delle azioni in campo e dallo sviluppo dell’azione su più piani.
Un’idea di fotografia che Pellegrin sta da qualche anno progressivamente abbandonando a favore di una rappresentazione che lavora di più sulla sottrazione.
Una situazione di apparente tranquillità.
Due ragazze fanno il bagno nelle calme acque del Mar Morto avvolte in una luce diffusa, quasi irreale.
Uno spazio di normalità all’interno di un territorio che da decenni vive in costante tensione ed a cui i palestinesi sempre più difficilmente possono accedere dal momento che la zona, pur essendo in territorio palestinese, è diventata un luogo adibito al turismo con la costruzione di resort gestiti da israeliani.
Per chi volesse approfondire ed ammirare il suo lavoro, una retrospettiva che raccoglie oltre 300 scatti della sua produzione dal 1995 fino ad oggi, è attualmente in mostra a Venezia.
“L’orizzonte degli eventi” Stanze della Fotografia, Venezia
30 agosto 2023 – 7 gennaio 2024
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