La stanchezza di una donna – Rosa Parks: Montgomery (Alabama), Febbraio 1957.

Il portalettere mi ha appena consegnato la posta del giorno.

Tra tante lettere, che ormai mi arrivano in quantità da un anno, ce n’è una che mi incuriosisce perché è più grande delle altre.

La apro.

Contiene un breve foglio d’accompagnamento, firmato dal giornalista Nicholas Chriss, della United Press International, e una mia foto, seduta sul famoso autobus numero 2857.

Con quello scatto Chriss aveva voluto ricreare il momento in cui, nel dicembre del ’55, mi ero rifiutata di alzarmi dal sedile dell’autobus, per far sedere un passeggero bianco, come mi era stato ordinato dall’autista.

Era una sera come tante, tornavo a casa dal lavoro, facevo la sarta in un grande magazzino di Montgomery.

Ero salita sul bus 2857 in direzione Cleveland Avenue.

Visto che era quasi vuoto, mi ero seduta nella zona centrale, delimitata da un cartello mobile, che poteva essere occupata da noi neri finché rimaneva ancora posto per i bianchi.

Se però uno di loro restava in piedi, allora noi eravamo obbligati a spostarci nei sedili sul fondo del bus.

Alla seconda fermata erano salite alcune di persone, ma alla terza fermata, di fronte all’Empire Theatre, il bus si era riempito e alcuni passeggeri bianchi non avevano trovato posto a sedere.

L’autista, allora, aveva spostato più indietro il cartello di separazione dei settori, per dare più posto per i bianchi.

Poi aveva ordinato a quattro passeggeri neri, tra cui io, di spostarsi nel settore dei neri.

Solo allora avevo riconosciuto l’autista.

Blake, James Blake.

Come potevo dimenticarmi di lui, anche se erano passati dodici anni!

Una sera del ’43 ero salita sul bus guidato da lui e pagato il biglietto ma, mentre stavo per sedermi, Blake mi aveva detto di salire dall’ingresso posteriore, secondo il regolamento.

Quando però ero scesa per risalire, lui era ripartito, lasciandomi appositamente a terra e costringendomi a pagare un secondo biglietto per l’autobus successivo.

Quel giorno avevo giurato di non viaggiare più con lui, ma stavolta me n’ero accorta troppo tardi, quando aveva messo la sua faccia davanti alla mia, ordinandomi di alzarmi.

Gli altri tre avevano obbedito, io no.

Mi ero rifiutata, pacata e gentile, ma risoluta, decisa: ero stanca, ma non fisicamente, avevo 42 anni, ero ancora abbastanza giovane.

No, ero stanca di subire, stanca di dover obbedire, di dover ascoltare chi mi ordinava cosa fare, con chi poter parlare.

Qualcuno che mi imponeva anche dove sedere nel bus, specialmente se quel qualcuno era proprio quell’autista.

Lui aveva insistito, alzando la voce, io mi ero rifiutata ancora, spostandomi solo per sedermi vicino al finestrino.

Blake aveva minacciato di chiamare la polizia.

Non lo avevo più calcolato e mi ero messa a guardare fuori dal vetro.

Facesse quello che vuole, io non ne potevo proprio più, ne avevo visti già troppi di soprusi da quando ero attivista della National Association for the Advancement of Colored People.

Rosa parks_policereport

Adesso mi ero stancata di sopportare.

Puntuali, pochi minuti dopo erano arrivati due agenti, che si erano qualificati come Day e Mixon, che mi avevano arrestata per violazione di un articolo del regolamento cittadino, secondo cui l’autista di un autobus era uguale a un agente di polizia.

E il mio rifiuto valeva come resistenza a pubblico ufficiale, e quindi il legittimo arresto.

In tutto quel tempo non avevo avuto paura di finire in prigione, sapevo che qualcuno dell’associazione si sarebbe occupato di me.

Quello che non sapevo e non potevo prevedere, erano gli effetti di quel mio no, pacato e gentile, ma risoluto.

Quella sera stessa Edgar Nixon, presidente della sezione Montgomery della NAACP, e l’avvocato bianco Clifford Durr si erano presentati all’ufficio dello sceriffo e avevano pagato la cauzione, così finalmente ero potuta tornata a casa, dopo essere stata schedata.

Gli effetti del mio no, come dicevo, non tardarono ad arrivare.

Nixon aveva parlato dell’accaduto con Jo Ann Robinson, una professoressa bianca dell’Alabama State College e attivista dei diritti delle donne.

Durante la notte stampò in ciclostile 35.000 volantini per annunciare il prossimo boicottaggio degli autobus della città di Montgomery.

Il lunedì seguente, in un processo durato appena mezzora, mi condannarono a pagare una multa di quattordici dollari, spese legali comprese, ma l’avvocato presentò subito ricorso, contestando la legalità della separazione dei posti sui mezzi di trasporto.

E nello stesso momento partiva il boicottaggio: nessuno, della comunità di colore della città, prese gli autobus e ci fu chi percorse addirittura trenta chilometri a piedi per andare al lavoro.

Altri presero il taxi, dal momento che gli autisti di colore avevano fissato il prezzo della corsa a dieci centesimi, lo stesso del biglietto del bus.

Mai vista tanta compattezza in una manifestazione, che riuscì a paralizzare la città per 381 giorni e provocando un ingente danno economico alla compagnia di trasporto.

arresto del 22 febbraio 1956

A febbraio mi avevano arrestato di nuovo, insieme ad altre persone di colore, con l’accusa di aver organizzato il boicottaggio, che terminò solo a fine dicembre del ’56, quando il tribunale cittadino accolse una sentenza della Corte federale che dichiarava incostituzionale la separazione delle persone sui mezzi pubblici di Montgomery.

Rimetto la foto nella busta e penso che tutto era scaturito dal mio no, un semplice no, pacato e gentile, ma risoluto.

* * *

Il racconto che avete appena letto è frutto della mia fantasia e trae spunto dall’iconica foto di Rosa Parks ritratta seduta sull’autobus che la riportava a casa dopo il lavoro.

Nei mesi precedenti l’episodio narrato anche Claudette Colvin e Mary Louise Smith si erano rifiutate di cedere il loro posto sull’autobus, ma evidentemente il rifiuto di Rosa era stato il casus belli per far scoppiare la rivolta, già in ebollizione da tempo.

Una rivolta che aveva portato al miglioramento, sia pure relativo, delle condizioni di vita della comunità di colore di Montgomery, e il 21 dicembre 1956, giorno dell’abolizione in Alabama della separazione dei posti sugli autobus, era diventato una ricorrenza importante.

Per ricordare l’evento storico, in mancanza di immagini del momento del rifiuto avvenuto quasi un anno prima, all’uscita del tribunale il giornalista Nicholas Chriss della United Press International chiese al suo fotografo di ricreare la situazione di allora: Rosa Parks sedette allo stesso posto sul medesimo autobus, guardando fuori del finestrino.

La persona dietro di lei è Chriss, che assunse per l’occasione l’atteggiamento serio e cupo di un probabile segregazionista bianco.

La “costruzione” della foto, la sua mancata corrispondenza alla realtà dei fatti, però, non ne sminuisce il valore.

Anzi, lo rafforza rendendolo più facilmente e visivamente interpretabile e trasformandolo in un messaggio universale per la lotta dei diritti civili che Rosa Parks aveva continuato a sostenere a fianco di Martin Luther King.

Mai sottovalutare la stanchezza delle donne.

N.d.R. Preciso che i termini poco politically correct “bianchi” e “neri” sono stati volutamente usati per sottolineare il forte contrasto sociale esistente nella società degli Stati del sud negli anni Cinquanta


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