Ci siamo lasciati lo scorso anno, nella rubrica Fotografia e Linguaggio, con un’analisi legata allo scheletro di una fotografia, alla sua meccanica ideologica, all’essenza di questo mezzo, tentando di scomporla in ogni sua parte, non prendendo minimamente in considerazione se si trattasse di fotografia digitale o analogica.

Quest’anno facciamo una scelta di campo: la fotografia digitale

Lo so, lo so, parliamo tutti di fotografia digitale, ma a me interessa indagarla nel suo habitat naturale, che decisamente non è la carta stampata.

La fotografia digitale si può anche stampare.

Anche.

È un “di più”.

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La fotografia digitale è una fotografia libera di fluire nello spazio, mediante canali che non prevedono in nessun modo una sua matericità.

Questo in realtà complica le cose:

ha fatto sì che la fotografia fosse facile da produrre, istintiva, alla portata di tutti e, di fatto, nessuno sa davvero cosa implichino le proprie immagini, le quali una volta liberate nella rete fanno un percorso proprio, si emancipano, e potenzialmente possono girare tutto il mondo senza di noi.

Viviamo tutti immersi nelle immagini ormai, anche chi non si occupa di fotografia.

Debord diceva:

“là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini divengono esseri reali”

oggi possiamo dire che il Sig. Debord ci aveva visto davvero molto lungo.

Le immagini non sono più passive, non sono qualcosa che vive in uno scatolone in cima ad un mobile, ma sono attive, vivono letteralmente insieme a noi.

E sono tante, molte più di noi.

Per ogni essere umano si contano migliaia di fotografie.

Fotografiamo la pizza che stiamo per mangiare, fotografiamo un monumento di una città che stiamo visitando…

…sentiamo addirittura la necessità di fotografare l’ennesimo tramonto sul mare

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Nel web ce ne sono per certo qualche milione di tramonti sul mare, ma noi ne sentiamo comunque la necessità…

…perché è il nostro tramonto, è quello che abbiamo visto noi, quel giorno, a testimonianza del “io c’ero”.

Per di più abbiamo visto almeno qualche centinaio di foto di tramonti e qualcuna si è posata sul fondo del nostro immaginario, e allora la imitiamo, la teniamo come modello e cerchiamo di creare la nostra versione partendo da un riferimento.

Cerchiamo di evitare gli errori, a tutti i costi, non importa che dagli errori in fotografia si siano fatte scoperte importantissime (Man Ray docet).

L’errore è qualcosa di stigmatizzato, da evitare, incentivando così un consumismo delle immagini con il paraocchi, con l’unico risultato che la nostra foto del tramonto sul mare sarà proprio come tutte le altre.


In attesa della ripresa della rubrica “Fotografia e Linguaggio”

puoi rileggere gli articoli precedenti!

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