Kyjov (Cechia), un giorno qualunque dei primi anni Settanta – Miroslav Tichý.
“Ecco qua, proprio quello che mi serviva!!!”, pensa Miroslav mentre fruga nella discarica della città.
Toglie le mani dal mucchio di spazzatura, in cui le ha affondate alla ricerca di qualche oggetto utile, e tira su un tubo di ferro, arrugginito ma senza ammaccature.
Un’altra immersione di mani nel mucchio vicino, e ne viene fuori un bel pezzo di plexiglass, in origine trasparente, ora sporco di fango e altri liquami scuri e indecifrabili.
Miroslav guarda i due preziosi tesori già immaginando l’utilizzo che ne avrebbe fatto una volta puliti e lucidati: ha una strana capacità tecnica, sa che quel determinato pezzo, unito ad un altro, crea esattamente ciò che vuole ottenere.
Ma quei rifiuti trovati in discarica non sono sufficienti per il suo “progetto”, ha bisogno ancora di qualcos’altro, si mette di nuovo alla ricerca.
Questa volta recupera del cartone di vario spessore, un paio di lattine, un altro tubo, però di plastica, dello spago e del fil di ferro.

Per iniziare può bastare, l’idea comincia a prendere forma nella mente di Miroslav.
Miroslav Tichý e l’auto-costruzione della fotocamera
Adesso è solo una questione di tempo per pulire, modificare, limare, aggiustare e poi assemblare tutti gli oggetti, dando loro una nuova forma, completa e soprattutto funzionante.
Rintanato nella sua casa-baracca fatiscente inizia a tagliare il plexiglass in tanti piccoli cerchi, che lucida con la carta vetrata, con la cenere, quella ne ha tanta nella stufa, e con un po’ del dentifricio di un mezzo tubetto trovato per strada, forse perduto da qualcuno.
Liscia, assottiglia, pulisce, e di nuovo liscia, assottiglia, pulisce: alla fine nelle sue mani, dalle unghie bordate di nero, brillano delle lenti trasparenti, o quasi, ma sempre più di com’erano prima del suo paziente lavoro.
Adesso è la volta della scatola, messa su con pezzi di cartone sigillati con l’asfalto stradale, per non far passare la luce; poi un’apertura sul retro e un foro abbastanza grande sul davanti.
Con i rotoli di cartone dell’interno della carta igienica, incollati fra di loro, costruisce un lungo tubo, in cui inserisce le lenti di plexiglass; il suo teleobiettivo è pronto, deve solo attaccarlo al corpo macchina della sua nuova fotocamera.
Ci siamo quasi, manca solo l’otturatore per lo scatto della foto, ma con un rocchetto di legno, di quelli per il filo da cucire e un po’ di elastici messi nei posti giusti, il gioco è fatto.
Il tocco finale è un bel giro di nastro adesivo intorno al rotolo di cartone, per fissarlo meglio e per non far muovere le lenti: la nuova fotocamera con un teleobiettivo è pronta.

La passione per la fotografia
Di macchine fotografiche Miroslav ne aveva già costruite altre, ormai era diventato pratico e con quelle aveva scattato centinaia di foto al giorno.
Le aveva poi stampate di notte, nella vasca da bagno in giardino, con un ingranditore messo su con lamine di metallo, pezzi di legno della staccionata, qualche lattina e una lampadina pitturata di rosso.
Ora le stampe sono sparse qua e là per la baracca, alcune sono incollate sul cartone e Miroslav Tichý le ha incorniciate con altro cartone disegnato e colorato.
Almeno quelle che sono rimaste, perché altre erano state bruciate nella stufa per riscaldarsi in inverno, altre ancora erano servite a riparare i vetri rotti della baracca.
Ma non importava, di foto Miroslav ne ha tantissime e altrettante ne scatta per le strade di Kyjov.

In genere cerca di non farsi vedere, scatta senza mettere a fuoco, tirando fuori la fotocamera dal vecchio cappotto pesante, confezionato da suo padre che di mestiere era stato sarto.
Qualcuno se ne accorge e gli sorride, ma non si preoccupa, tutti conoscono questo strano “fotografo” e sanno che non fa del male a nessuno.
Anche perché nessuno crede che quella strana “cosa” che ha in mano sia una fotocamera, per di più funzionante.
Invece funziona e come, con tanto di pellicola, meglio se di formato 6×6, che può tagliare per lungo in modo da raddoppiare il numero delle pose.
Il mistero delle sue foto
Deve risparmiare, la pellicola è l’unica cosa che deve comprare, non si trova certo in discarica.
Poi, col teleobiettivo appena costruito, riesce a scattare foto senza mettersi troppo in mostra e può fotografare le donne senza problemi, specie le ragazze nella piscina comunale.
Il guardiano non lo ha mai lasciato entrare, per colpa del suo aspetto da barbone, e forse non ha tutti i torti, così deve accontentarsi a scattare da dietro la rete di recinzione, quando le ragazze prendono il sole in costume da bagno oppure quando parlano e giocano fra di loro, alcune mentre si cambiava d’abito.
Si era spesso chiesto il perché quella mania di fotografare l’altro sesso.
Non è un’ossessione sessuale, non gli interessano le donne in quanto tali, piuttosto perché gli ricordano la sinuosità di forme classiche.
E se c’è qualcuna che lo colpisce in modo particolare, invece di scattare una foto prende carta e matita e la disegna, tornando al suo antico mestiere.
Nessuna ricerca di erotismo.
“L’erotismo è solo un’illusione. Il mondo stesso è un’illusione, la nostra illusione”, pensa Miroslav mentre carica la pellicola nella fotocamera e si prepara ad uscire per nuove fotografie.
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Il mistero delle sue foto

Il racconto che avete appena letto mi è stato suggerito da alcune foto, trovate sul web, di Miroslav Tichý (1926-2011), pittore e fotografo di nazionalità ceca dalla vita resa difficile dalle sue idee, in contrasto con il clima repressivo del governo socialista del tempo.
In gioventù aveva frequentato l’Accademia di Belle Arti a Praga, ma per il suo rifiuto di sottostare ai canoni artistici imposti dal partito comunista cecoslovacco era stato cacciato dalla scuola e il suo studio d’arte, aperto con alcuni colleghi, era stato confiscato.
Considerato un dissidente, in occasione di manifestazioni politiche veniva arrestato preventivamente o rinchiuso in ospedali psichiatrici.
Rimase così senza casa e senza lavoro, abbandonandosi alla vita da senzatetto e trovando rifugio in una vecchia baracca abbandonata in periferia; non abbandonò mai la sua natura artistica, dedicandosi però alla fotografia.
Con oggetti di scarto, trovati nell’immondizia, costruì varie fotocamere, funzionanti ma dalla bassissima qualità di ripresa.
A lui però non interessava il risultato, non archiviava né vendeva le foto scattate: era solo una ricerca personale della bellezza.

La svolta nella vita di Miroslav avvenne nel 1981, quando incontrò un suo ex vicino di casa ritornato dopo anni di lavoro in Svizzera: Roman Buxbaum, che scoprì le fotografie dell’amico clochard, iniziandole a collezionare e dando vita alla Fondazione Tichý Oceán.
Nel 2004 l’esperto d’arte Harald Szeeman organizzò alla Biennale di Siviglia prima mostra delle opere di Miroslav, che però non si presentò neanche all’inaugurazione.
Nel 2010 il New York Times, in occasione di una sua personale all’International Center of Photografy di New York, definì le sue fotografie una «strana fusione di erotismo, paranoia e deliberazione» e che il suo stile era «leggermente inquietante [ma anche] intensamente affascinante».
Miroslav Tichý morì l’anno seguente.
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