Delta del Fiume Rosso, 25 maggio del 1954 – Robert Capa
Dopo più di cinquanta giorni di battaglia, ai primi di maggio l’esercito francese in Indocina ha subito una tragica disfatta a Dien Bien Phu, nel nord del Vietnam.
La sconfitta brucia ancora ai francesi, che vogliono dimostrare ancora la loro forza.
Infatti il generale René Cogny ha detto ai suoi ufficiali:
“Dien bien phu è stato un duro colpo, ma ora è tutto finito. Dobbiamo voltare pagina. Dobbiamo guardare avanti, e avanti c’è la Battaglia del Delta”.
Per questo ha organizzato una spedizione per recuperare gli oltre cento soldati delle guarnigioni di Doai Than e Thanh Ne, due forti a meno di 20 miglia da Nam Dinh, nel Delta del Fiume Rosso.
Il contingente è composto da duemila uomini, fra truppe regolari, legionari francesi, vietcong e truppe coloniali marocchine, con più duecento veicoli e quindici carri armati, un bel dispiegamento di forze.
Robert Capa: preparativi per un reportage storico

Tra i corrispondenti di guerra accreditati, pronti a documentare lo scontro, in immagini e parole, ci sono anche Robert Capa (qui gli altri articoli sul fotografo) e John Mecklin, entrambi inviati dalla rivista americana Life.
Ora sono alloggiati al Modern Hotel di Nam Dinh, nel Delta del Fiume Rosso, e si stanno preparando per la missione di domani.
Bob controlla di avere nello zaino un termos di tè freddo e del cognac, oltre alle sue due fotocamere: una Contax IIA, caricata in bianconero, una Nikon S, a colori.
Alle sette di mattina del giorno seguente arriva la jeep messa a disposizione dal comando francese con a bordo l’autista e Jim Lucas, giornalista dello Scripps-Howard Newspapers.
Bob si sente bene e, mentre aspettano il traghetto per superare il Fiume Rosso, dice: “Questo sarà un bel reportage”.
Aveva già pensato di intitolarlo ‘Riso amaro’, per la quantità di riso coltivato nelle risaie del delta e per la difficoltà di raccoglierlo, specie con la guerra in corso.
La colonna in marcia e i primi ostacoli

Nel suo soggiorno sul Delta aveva già fotografato i contadini che, con i cappelli di paglia contro il sole battente, si recavano a piedi al mercato per vendere il loro raccolto, incuranti di quello che succedeva intorno.
Aveva visto anche un motociclista francese che per scherzo era passato così vicino a loro da costringerli a gettarsi sul lato della strada: secondo Bob trattare male i contadini era il modo migliore per ingrossare il numero dei Vietminh.
La colonna si è fermata all’improvviso, il nemico ha scavato otto trincee di traverso alla carreggiata e fatto saltare un paio di ponti, ma i francesi sono intervenuti con i bulldozer e duecento prigionieri e la marcia riprende.
Sono le due del pomeriggio, arriva la notizia che l’avanguardia della colonna ha già liberato il forte di Doai Than, e Capa commenta: “La storia è quasi fatta, ma ho bisogno che facciano esplodere il forte”.
Lo scoppio della battaglia e l’ultima foto

Poi sale sul cofano della jeep per scattare con calma una foto, bloccando il camion che viene dietro, ma per lui è una buona foto e non può perderla.
Dopo appena un chilometro la marcia verso il forte di Thanh Ne si interrompe di nuovo, tutto intorno si spara: carri armati, mortai, artiglieria francese, tutti sparano verso due villaggi non lontani, dalla boscaglia rispondono con lunghe e ripetute raffiche di armi automatiche.
Ad un tratto un’enorme esplosione fa tremare la terra, i francesi hanno fatto saltare in aria il forte di Doai Than per non lasciarlo al nemico: proprio quello che voleva Capa, ma lui è andato avanti per fotografare le pattuglie in avanscoperta.
I colpi continuano, un carro armato spara al di sopra delle teste dei giornalisti che annotano quello che sta accadendo per i loro articoli, nonostante la confusione e le esplosioni continue.
All’improvviso arriva un tenente francese che dice a Mecklin e a Lucas: “Le photographe est mort”, lasciandoli senza parole, poi arriva un soldato che parla col tenente: “Forse non morto ma ferito dal mortaio, très grave”
La morte di Robert Capa e gli onori militari
I due iniziano a correre verso il punto in cui avevano visto Capa per l’ultima volta, quando era in cerca di buone foto per la sua storia.

Lo trovano in una piccola radura, a poca distanza da una grossa buca nel terreno, pensano al colpo di un mortaio che lo ha colpito gravemente al petto e gli ha fratturato la gamba sinistra: è disteso sulla schiena e stringe ancora in mano la Contax, la Nikon è volata via.
Cercano di parlarci, di chiamarlo, lui muove appena le labbra, è ancora vivo!
Un’esplosione rompe l’aria, un bulldozer è saltato sopra una mina e dei soldati vietnamiti vengono scagliati dallo spostamento d’aria verso il gruppo intorno al ferito, dopo poco un’altra esplosione: non è stato un mortaio a ferire Capa, ma una mina.
Tutt’intorno è pieno di mine.
Mentre i francesi del colonnello Lacapelle vanno all’attacco, arriva l’ambulanza che carica il fotografo per portarlo all’ospedale di Dong Qui Thon, cinque chilometri più indietro, ma ormai è troppo tardi.
La sua salma viene salutata da un picchetto d’onore di soldati senegalesi all’aeroporto di Nam Dinh, dove un Douglas C-47 la porta ad Hanoi.
Qui è sepolta temporaneamente nel cimitero francese alla presenza di una guardia d’onore di paracadutisti coloniali del generale Cogny, che dichiara: “Capa è morto come un soldato tra i soldati”, poi appunta sulla bandiera americana, che copre la bara, la Croix de Guerre con palma, una delle più alte onorificenze dell’esercito francese.
Il ragazzo Friedmann, il fotografo Capa, entrano nella leggenda.
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L’eredità di un fotografo di guerra leggendario

Quello che avete appena letto è il racconto, molto aderente alla realtà, della morte di Robert Capa, al secolo Endre Erno Friedmann, prendendo spunto dall’articolo scritto da John Mecklin, corrispondente di Life, e pubblicato dalla rivista americana il 7 giugno 1954.
Tra l’altro nell’articolo è pubblicata la foto di Capa a Luang Prabang, nell’ultima settimana di vita, oltre a quelle scattate da lui stesso durante quella fatale missione di guerra in Indocina.
Cercare di raccontare la storia umana e professionale di Capa in poche righe è assolutamente impensabile, per questo ho deciso di ricordare la sua ultima missione, nella sua ultima guerra: prima c’erano già state quella di Spagna, quella cino-giapponese, la seconda guerra mondiale e il conflitto arabo-israeliano.
Una volta il generale Theodore Roosvelt aveva affermato: “Sull’arte della guerra Bob ne sa molto di più di tanti generali a quattro stelle”.
Nonostante ciò Capa non amava la guerra: “era ‘felice di essere un fotografo di guerra disoccupato’ e sperava di rimanere così per il resto della sua vita” (Life, 1954).
John Mecklin scriveva che “Capa era dappertutto ma sempre mostrando una perizia nel rischio calcolato che solo un uomo nella sua quinta guerra poteva sapere. Era cauto nell’attraversare le aree esposte, ma se vedeva una buona immagine che poteva essere fatta solo con il rischio prendeva il rischio”.
Capa era consapevole di quello che sarebbe potuto accadere, ma era stato coerente con quello che affermava sempre: “Se le tue fotografie non sono buone, significa che non eri abbastanza vicino”.
E quel giorno lui voleva scattare una buona foto.
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